È AMMISSIBILE LA DISEREDAZIONE?
È ammissibile la diseredazione?
Il quesito, per i non addetti ai lavori, può presentarsi apparentemente banale, almeno a giudicare dal lessico comune e da ciò che capita spesso di osservare in romanzi e telefilm stranieri.
In realtà, esso ha dato luogo, in dottrina e giurisprudenza, ad un dibattito complesso ed articolato, ancora non del tutto sopito.
In primo luogo, cosa si intende per “diseredazione”? Essa non è altro che una disposizione testamentaria con la quale il testatore esprime la sua volontà che un certo soggetto non diventi suo erede. La diseredazione ha, quindi, carattere “negativo”, volto a non attribuire alcunché al diseredato.
Chiarito ciò, occorre verificare se una siffatta disposizione sia ammissibile nell’ordinamento italiano.
L’art. 587 cod. civ. sancisce come il testamento sia l’atto con cui il testatore “dispone delle sue sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere”.
Stante tale definizione, è evidente come, attraverso il testamento, sia possibile attribuire i propri beni per il tempo posteriore alla propria morte. L’istituzione di erede, cioè, opera “in positivo”, nel senso che assume carattere attributivo.
Solo in difetto di una volontà testamentaria di tal fatta, subentra la legge nel regolare la successione del de cuius. Quanto detto è confermato dall’art. 457, 2° comma, cod. civ., ai sensi del quale “non si fa luogo alla successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria”.
Chiarito ciò, si deve osservare come la dottrina tradizionale abbia sempre negato l’ammissibilità della clausola di diseredazione. Si è affermato, infatti, come la diseredazione, avendo carattere “negativo”, non sia in linea con l’art. 587 cod. civ..
L’unico strumento a disposizione del testatore per raggiungere un effetto analogo, pertanto, sarebbe l’attribuzione della qualità di erede a qualcun altro.
Parte minoritaria dei commentatori, invece, ha sostenuto l’ammissibilità della diseredazione, stante l’assenza di espressi divieti in tal senso nella legislazione vigente (e salvi i diritti inderogabili spettanti ai legittimari).
Altre parte della dottrina, forse maggioritaria, ha invece reputato ammissibile la diseredazione laddove essa si traduca in un’istituzione implicita di erede, con ciò rispettandosi l’art. 587 cod. civ. ed il carattere attributivo delle disposizioni testamentarie. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, laddove il testatore formulasse una disposizione del seguente tenore: “Tra i miei successibili ex lege, escludo dalla successione il solo Tizio”. Una formulazione di questo genere, infatti, comporterebbe un’istituzione implicita degli altri chiamati (tutti tranne, appunto, Tizio).
Occorre rammentare, in ogni caso, come la legge imponga che un certo vantaggio patrimoniale spetti in favore di determinati soggetti, i cd. legittimari (coniuge, figli ed eventualmente ascendenti). Costoro, infatti, ancorché del tutto pretermessi (cioè non beneficiati in alcun modo nel testamento), possono sempre agire in riduzione per ottenere quanto la legge gli riconosce in via inderogabile (cfr. art. 457, 3° comma, cod. civ.: “Le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari”).
Alla luce di quanto sinteticamente esposto, in definitiva, pare potersi concludere nel senso dell’ammissibilità, se non altro, della diseredazione che comporti istituzione implicita di erede, ferma l’intangibilità dei diritti dei legittimari.
Ma qual è l’opinione della giurisprudenza di legittimità più recente sul punto?
Nell’ultima pronuncia rilevante in materia, la Corte di Cassazione ha affermato la sostanziale ammissibilità della diseredazione, anche laddove non si traduca in un’istituzione implicita, purché essa non riguardi un legittimario (cfr. Cass. n. 8352/2012). La diseredazione, in sostanza, integrerebbe pur sempre manifestazione della volontà del testatore di regolare i propri rapporti patrimoniali per il tempo in cui avrà cessato di vivere, con conseguente sua ammissibilità ai sensi dell’art. 587 cod. civ.. Anche una disposizione testamentaria a contenuto “negativo”, quale la clausola di diseredazione è, in altre parole, integrerebbe manifestazione della volontà del testatore di disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere, in ossequio al disposto dell’art. 587 cod. civ..
Si discute, infine, sulla sorte di una disposizione diseredativa di un legittimario. Secondo un’interpretazione particolarmente liberale e tuttavia perfettamente sostenibile, essa sarebbe lecita, in quanto il legittimario potrebbe in ogni caso agire in riduzione ed ottenere quanto spettantegli per legge. Secondo altra tesi, la clausola in questione sarebbe radicalmente nulla.
Conclusioni
In definitiva, alla luce di quanto illustrato, pur potendosi ritenere ammissibile, secondo quanto affermato recentemente dalla Cassazione, la clausola di diseredazione, si deve ribadire l’impossibilità, per il testatore, di impedire in qualsivoglia modo che il legittimario consegua quanto la legge gli riservi a titolo di legittima. Sia la pretermissione che un’eventuale diseredazione, infatti, resterebbero senz’altro esposte all’azione di riduzione.
E’ ammissibile, in definitiva, la diseredazione di un parente “sgradito”, purché non si tratti del coniuge, dei figli e (nel caso in cui non vi siano figli) di un ascendente.
Avv. Nicola Sansone
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